Quella strana accusa
della Procura di Roma
contro Sabina Guzzanti
Bologna, 12 settembre 2008
(avv. Antonello Tomanelli)
Il Sommo Pontefice non si tocca. E’ questo il messaggio che arriva dalla Procura di Roma, che ha deciso di procedere contro Sabina Guzzanti per le frasi pronunciate lo scorso 8 luglio dal palco di Piazza Navona all’indirizzo di Papa Ratzinger in occasione del “No Cav Day”, chiedendo nel contempo l’archiviazione per Beppe Grillo per il reato di cui all’art. 278 del codice penale (“Offesa all’onore o al prestigio del presidente della Repubblica”), che si era scagliato contro “Morfeo Napolitano”.
L’archiviazione nei confronti di Beppe Grillo viene giustificata con il diritto di satira. Non si conoscono i particolari. Ma è certo che il pm ha aderito a quell’indirizzo giurisprudenziale che considera lecita la satira quando sussista un “nesso di coerenza causale” tra la qualità della dimensione pubblica del personaggio preso di mira e il contenuto del messaggio satirico. Il presidente Napolitano non si è opposto al “Lodo Alfano”, riproduttivo di quel “Lodo Schifani” del 2003 già dichiarato incostituzionale dalla Consulta con sentenza n. 24 del 2004, né ha manifestato sdegno per i tentativi della attuale maggioranza di affossare l’azione penale e comprimere il diritto alla informazione limitando le intercettazioni e impedendone la pubblicazione per tutta la durata delle indagini preliminari (ecco la qualità della dimensione pubblica di Napolitano). Per Beppe Grillo, la passività del Capo dello Stato è dovuta all’azione di Morfeo, il dio dei sogni della mitologia greca che sfiora con un mazzo di papaveri le palpebre di chi dorme (ecco il contenuto del messaggio satirico).
Come si nota agevolmente, qui il nesso di coerenza causale, quello che rende lecita la battuta satirica potenzialmente lesiva della reputazione, è tra i più intensi. Ma se questo nesso di coerenza causale (che salva ogni satira che abbia “un significato”) è il parametro di valutazione della legittimità della satira, ci si chiede perché la procura di Roma l’abbia negato alla Guzzanti, chiedendo l’applicazione dell’art. 8, comma 2°, legge n. 810/1929 esecutiva dei Patti Lateranensi (“Le offese e le ingiurie pubbliche commesse nel territorio italiano contro la persona del Sommo Pontefice con discorsi, con fatti e con scritti, sono punite come le offese e le ingiurie alla persona del presidente della Repubblica”).
Una norma di legge che, per inciso, colloca il Papa nettamente al di sopra di qualsiasi capo di Stato estero, se si considera che il reato di cui all’art. 297 del codice penale (“Offesa all’onore dei Capi di Stati esteri”) è stato abrogato con legge n. 205 del 1999, e che l’art. 7 della Costituzione sancisce che “Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Ma che non risulta riprodotta nell'Accordo di revisione del Concordato del '29 tra Santa Sede e Stato Italiano del 18 febbraio 1984, reso esecutivo con L. n. 121 del 1985, e che, proprio per questo motivo, dovrebbe ritenersi abrogata per effetto dell'art. 13, secondo cui "[…] le disposizioni del Concordato stesso non riprodotte nel presente testo sono abrogate".
A parte ciò, tutti sanno cosa ha detto la Guzzanti su papa Benedetto XVI dal palco di piazza Navona. Criticando le continue ingerenze del Vaticano nella politica italiana, da morto lo ha collocato “all’inferno, tormentato da dei diavoloni, frocioni, attivissimi e non passivissimi”. Scontato l’intento satirico della Guzzanti, non deve fuorviare la rappresentazione di quello che è senz’altro il più turpe tra i destini che si possano augurare ad un Pontefice: essere sodomizzato dal suo peggior nemico. Come dice Dario Fo, la satira è “uno sghignazzo” che ha la funzione di mettere “il re in mutande”. Pertanto “non può essere elegante”.
Le frasi incriminate della Guzzanti non possono essere liquidate come “parole grevi e volgari”, per usare il termine adoperato dal magistrato della procura di Roma. Perché altro non sono che la raffigurazione del nesso di coerenza causale tra la nota contrarietà di Joseph Ratzinger a qualsiasi regolamentazione delle unioni omosessuali (qualità della dimensione pubblica del Papa) e la “punizione” che la Guzzanti gli infligge per questa sua intransigenza (contenuto del messaggio satirico).
Una “punizione”, quella inflitta dalla Guzzanti, che trova un illustre precedente nella Divina Commedia di Dante Alighieri, che colloca nel girone infernale dei Simoniaci Papa Bonifacio VIII ed altri ecclesiastici per aver fatto commercio di beni sacri, condannandoli a restare appesi a testa in giù con il fuoco che brucia loro le piante dei piedi.